Non sussiste la causa di incompatibilità di cui all’articolo 63, comma 1, n. 4, d. lgs. n. 267/2000 per lite pendente nel caso in cui la lite è pendente tra l’amministratore e la società controllata dal comune. Inoltre, poiché il fatto generatore della controversia è riconducibile all’esercizio delle funzioni di controllo esercitata dall’amministratore, è applicabile l’esimente di cui al comma 3 dell’art. 63 d.lgs. n. 267/2000. Per quanto attiene il dovere di astensione previsto dall’articolo 78, comma 2, TUOEL, esso sussiste in tutti i casi in cui i soggetti tenuti alla sua osservanza sono portatori di interessi personali che possono trovarsi in posizione di conflittualità rispetto a quello, generale dell’organo di cui fa parte.
E' stato sottoposto a questo Ministero un quesito concernente l’applicazione del dovere di astensione di cui all’art. 78, comma 2, d. lgs. 267/2000 (T.U.O.E.L.) con riferimento ad un consigliere comunale nei confronti del quale pende una lite instaurata da una società controllata dal comune stesso.
Più nel dettaglio, nella richiesta di parere viene evidenziato che il predetto amministratore, il quale ricopre il ruolo di presidente della Commissione consiliare di controllo e garanzia, è stato citato in giudizio dalla menzionata società controllata per presunti danni derivanti da dichiarazioni rese alla stampa nell’esercizio delle proprie funzioni, così da prefigurare una situazione di conflitto di interessi in capo all’interessato rispetto all’assolvimento dello specifico mandato consiliare di cui lo stesso è titolare.
Al riguardo, con nota prot. 9636 del 3 giugno 2021 questo Ministero ha richiamato, l’articolo 63 del decreto legislativo n. 267/2000 che individua le cc.dd. cause di incompatibilità d’interessi, la cui finalità è quella di garantire il corretto adempimento del mandato ed impedire che possano concorrere all’esercizio delle relative funzioni soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli dell’istituzione locale o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l’imparzialità; l’amministratore, infatti, non deve prestare il fianco al sospetto che la sua condotta possa essere orientata dall’intento di tutelare i propri interessi personali contrapposti a quelli dell’ente (cfr. Corte Cost., sent. 24 giugno 2003, n. 220; Id., 20 febbraio 1997, n. 44; v., anche, Cass. Civ., sez. I, sent. 4 maggio 2002, n. 6426).
In particolare, il comma 1, n. 4) del predetto art. 63 dispone testualmente che “Non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale o circoscrizionale: […] colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo, rispettivamente, con il comune o la provincia […]”. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la nozione di “parte” cui si riferisce il menzionato articolo 63, comma 1, n. 4), del decreto legislativo n. 267/2000 n. 267/2000, assume carattere “tecnico”, ossia è da intendersi alla parte in senso processualistico, onde occorre la pendenza di un’effettiva controversia giudiziaria e non semplicemente una lite potenziale o un contrasto, potenziale o reale, di interessi (v., ex multis, Cass. Civ., sez. I, sent. 12 febbraio 2008, n. 3384; Id., sent. 24 febbraio 2005, n. 3904; Id., sent. 19 maggio 2001, n. 6880). La “lite”, invece, deve riflettere uno scontro di interessi tra le parti, che debbono risultare contrapposte. Per “lite pendente”, quindi, deve intendersi la “pendenza” di un’effettiva controversia giudiziaria e non è sufficiente la semplice constatazione dell’esistenza di un procedimento civile o amministrativo nel quale risultino coinvolti, attivamente o passivamente, l’eletto o l’ente, ma occorre che a tale dato formale corrisponda una concreta contrapposizione di parti, ossia una reale situazione di conflitto, onde sussiste l’esigenza di evitare che il conflitto di interessi che ha determinato la lite possa orientare le scelte dell’eletto in pregiudizio dell’ente amministrativo, o comunque, possa ingenerare all’esterno sospetti al riguardo (in questi termini Cass. Civ., sez. I, 28 luglio 2001, n. 10335).
Quanto alla esimente di cui al comma 3 del medesimo articolo 63, il suo fondamento è da rivenirsi nella necessità di evitare che liti pretestuose o strumentali possano originare da comportamenti tenuti dagli amministratori nell’esercizio del mandato e finalizzati al perseguimento degli interessi della collettività amministrata per creare una fittizia causa di incompatibilità.
Al fine dell’operatività della esimente de qua l’indagine ermeneutica deve svolgersi su due piani: anzitutto, si deve ricostruire il fatto rilevante nel quadro della fattispecie normativa (ed il fatto rilevante è il fatto generatore della lite, ossia quello da cui origina la controversia); secondariamente, deve verificarsi l’esistenza di un rapporto di connessione tra quel fatto e l’esercizio del mandato ed il fatto idoneo ad escludere l’incompatibilità è solo quello inerente alla funzione di pubblico amministratore, cioè tale da sostanziarsi in un atto o in un comportamento correlato all’esercizio della funzione e concorrente al perseguimento degli interessi generali propri di essa (v. Cass. Civ., sez. I, sent. 18 dicembre 2007, n. 26673; Id., sent. n. 6426/2002 cit.; Id., sent. 24 marzo 1993 n. 3503).
Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza, infatti, il discrimine tra atti connessi all’esercizio del mandato ed atti estranei allo stesso è fornito dall’interesse per il quale l’atto viene compiuto, onde la connessione viene meno solo quando la funzione pubblica sia lo strumento per il perseguimento di interessi personali dell’amministratore o di terzi e non anche quando la stessa, seppur non correttamente esercitata, sia comunque finalizzata al perseguimento di interessi generali. Sul punto, di recente, la Suprema Corte di Cassazione ha opinato nel senso che “[...] la deroga correlata all’ipotesi in cui la lite riguardi un fatto connesso con l’esercizio del mandato ha una ratio evidente, consistente nell’intento di escludere fra le cause di incompatibilità quelle controversie insorte per il perseguimento degli interessi generali e non già per fini personali dell’amministratore, di talché deve tenersi presente che detta deroga è volta a salvaguardare il libero esercizio delle funzioni dal timore di incorrere in situazioni di incompatibilità, magari artatamente predisposte nell’ambito della lotta politica [...]” (così Cass. Civ., sent. 4 marzo 2016, n. 4258).
Orbene, nel caso in esame, stando agli elementi forniti, si osserva in primo luogo che il giudizio risulta pendente tra l’amministratore e la società controllata, non assumendo il comune la veste di parte in senso tecnico-processuale.
D’altra parte, come sottolineato nel quesito, il fatto generatore della controversia giudiziaria in parola sembrerebbe riconducibile all’esercizio delle funzioni di controllo inerenti il mandato svolto dall’interessato in seno alla commissione di controllo e garanzia, dallo stesso presieduta, con conseguente possibile operatività dell’esimente di cui al citato comma 3, art. 63 T.U.O.E.L.
In ogni caso, resta fermo che, in conformità al generale principio per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la verifica delle cause ostative all’assunzione del mandato elettivo, ovvero dell’eventuale deroga all’operatività delle stesse, è compiuta con la procedura prevista dall’art. 69 T.U.O.E.L., che garantisce il contraddittorio tra organo ed amministratore, assicurando a quest’ultimo l’esercizio del diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la preclusione contestata (cfr. Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 10 luglio 2004, n. 12809; Id., sentenza 12 novembre 1999, n. 12529).
Quanto al dovere di astensione, l’art. 78, comma 2, prima parte, T.U.O.E.L. prevede per gli amministratori di cui al precedente art. 77, comma 2, l’obbligo di astenersi dalla discussione e votazione di delibere riguardanti interessi propri o di parenti o affini fino al quarto grado.
Una costante giurisprudenza ritiene che l’obbligo di astensione, per conflitto di interessi da parte dei soggetti appartenenti ad organi collegiali, sussista in tutti i casi in cui i soggetti tenuti alla sua osservanza siano portatori di interessi personali che possano trovarsi in posizione di conflittualità o anche solo di divergenza rispetto a quello, generale, affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte (cfr. T.A.R. Abruzzo – L’Aquila Sez. I Sent., 19/03/2014, n. 261; Consiglio di Stato, sentenza 25 settembre 2014, n. 4806; Id., Sezione IV, sentenza 28 gennaio 2011, n. 693; Consiglio di Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2970).
La menzionata regola, come evidenziato della stessa giurisprudenza amministrativa, «deve trovare applicazione in tutti i casi in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale, con la precisazione che il concetto di "interesse" del consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire all'adozione di una delibera» (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 10/09/2020, n. 5423).
Con riguardo alla portata dell’obbligo in questione, la stessa giurisprudenza ha rimarcato come esso «costituisce principio di carattere generale ex art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali), che non ammette deroghe o eccezioni, ricorrendo ogni qualvolta sussista una correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, anche se la votazione potrebbe non avere altro apprezzabile esito e la scelta fosse in concreto la più utile e opportuna per l'interesse pubblico. Tale dovere sussiste in tutti i casi in cui essi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano - anche solo potenzialmente - idonee a minare l'imparzialità dei medesimi» (T.A.R. Calabria Reggio Calabria, Sent., 09/01/2014, n. 18; Id., Sent., 24/05/2012, n. 385).
Sulla scorta delle coordinate normative e giurisprudenziali sopra richiamate, la sussistenza del dovere di astensione, e la sua ampiezza, dovranno, dunque, essere valutate rispetto alle questioni oggetto delle singole deliberazioni, in ragione della ritenuta compromissione dell’imparzialità in capo all’amministratore interessato nell’esercizio delle funzioni di controllo spettanti in qualità di Presidente della competente Commissione consiliare, una volta constatata la pendenza di un giudizio che coinvolge quest’ultimo in relazione a fatti o comportamenti effettivamente riconducibili all’esercizio delle funzioni di controllo, nei confronti di un soggetto destinatario della descritta funzione (id est, nella fattispecie concreta la società controllata che agisce in giudizio).