Rimborso delle spese di viaggio sostenute da un consigliere comunale assegnista di ricerca

Territorio e autonomie locali
7 Luglio 2020
Categoria 
13 Status degli Amministratori Locali
Sintesi/Massima 

Le specificità del rapporto contrattuale intercorrente tra assegnista di ricerca e istituzione universitaria rendono necessaria la prova, oltre che dell’elemento soggettivo, anche dell’elemento oggettivo della residenza in un comune diverso da quello nel quale il consigliere esercita il mandato.

Testo 

E’ stato chiesto a questo ufficio un parere in merito alla corretta interpretazione dell’articolo 84, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000, in particolare con riferimento alla nozione di residenza ivi contemplata.
Il caso prospettato concerne l’istanza di rimborso delle spese di viaggio sostenute da un consigliere comunale per raggiungere il comune presso il quale è stato eletto a partire non già dal luogo della residenza anagrafica, bensì dal luogo di lavoro, ossia la città dove il consigliere asserisce di avere stabilito la propria dimora in seguito alla sottoscrizione di un contratto come assegnista di ricerca all’università.
Al riguardo, si osserva che l'articolo 84, comma 3, del citato decreto legislativo n. 267/2000, prevede che agli amministratori che risiedono fuori del capoluogo del comune ove ha sede l'ente, spetta il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute per la partecipazione ad ognuna delle sedute dei rispettivi organi assembleari, nonché per la presenza necessaria (cioè riconducibile ad oggettive esigenze connesse allo svolgimento del mandato), presso la sede degli uffici per lo svolgimento delle funzioni proprie o delegate. Il dato testuale della norma individua nella residenza fuori del capoluogo del comune, la condizione necessaria per usufruire della rifusione delle spese di viaggio da parte dell'ente presso cui viene espletato il mandato elettorale.
La definizione civilistica di residenza è contenuta all’art. 43 comma 2 c.c., che si riferisce al “luogo in cui la persona ha la dimora abituale”, per tale dovendosi intendere secondo la giurisprudenza il luogo con cui il soggetto ha una relazione di fatto, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle relazioni sociali. Tuttavia, non vi è necessaria coincidenza tra la residenza anagrafica e residenza civilistica ex art. 43, comma 2, c.c., in quanto la prima indica il luogo comunicato al comune quale propria stabile dimora, mentre la seconda identifica il luogo in cui un soggetto dimora abitualmente. Il  Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 6359 del 24 settembre 2019 ha ribadito tale distinzione, precisando che “Va, infatti, considerato che l’indicazione anagrafica non individua inequivocabilmente la residenza civilistica, ma ha rilevanza sul piano probatorio e forma una presunzione circa il luogo di effettiva abituale dimora, che è accertabile con qualunque mezzo di prova: in particolare la giurisprudenza ha chiarito che il requisito dell’abitualità della dimora è la risultante del fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo e dell’elemento soggettivo costituito dalla volontà della persona a rimanervi stabilmente, desumibile da circostanze univoche e concordanti, tra le quali valore preminente assume proprio lo svolgimento in loco dell’attività lavorativa”.
In merito alla nozione di residenza rilevante ai fini dell’articolo 84, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000, questo Ministero ha ritenuto - in precedenti pareri espressi in casi analoghi  - potersi accedere, in conformità all'orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato in materia (cfr. sentenza, sez. V, n. 5816 del 17 ottobre 2005), ad una interpretazione estensiva della norma citata in base alla quale, ai fini dell'ammissibilità del rimborso delle spese di viaggio, è possibile assimilare la residenza anagrafica a quella di fatto, quando l'amministratore, per comprovate esigenze connesse all'attività lavorativa, ha avuto necessità di fissare la propria dimora abituale in luogo diverso da quello della residenza anagrafica.
Più precisamente, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, qualora la residenza anagrafica non corrisponda alla residenza effettiva, quale si desume dall'art. 43 del codice civile, è di quest'ultima che bisogna tener conto, e la prova della sua sussistenza può essere fornita con ogni mezzo anche indipendentemente dalle risultanze anagrafiche, tenendo conto delle condizioni sopra indicate: elemento oggettivo della stabile permanenza in un luogo ed elemento soggettivo della volontà della persona a rimanervi stabilmente. Solo in presenza di tali condizioni, previamente verificate, l'amministrazione potrà applicare agli specifici fini, l'orientamento espresso dal Consiglio di Stato.
Recentemente, con la succitata sentenza n. 6359 del 24 settembre 2019, il Consiglio di Stato, nel confermare l’adesione all’orientamento giurisprudenziale illustrato, ha posto l’accento sul concetto di residenza per i dipendenti pubblici, affermando che “Se, dunque, l’amministratore non ha la residenza anagrafica nel comune in cui è situato il posto di lavoro, ma vi ha collocato la propria dimora abituale può, comunque, privilegiarsi l’aspetto della tutela dell’espletamento della carica e delle comprovate esigenze connesse all’attività del lavoratore dipendente ed accedere ai fini della rifusione delle spese di viaggio all’orientamento giurisprudenziale in base al quale l’obbligo di residenza previsto per i dipendenti pubblici è assolto anche quando il dipendente abbia stabilito la propria effettiva e permanente dimora nel luogo in cui si trova l’ufficio, assimilandosi il concetto di residenza a quello di residenza di fatto ex art. 43 c.c.”.
Nel caso che ci occupa, il consigliere di cui si tratta ha prodotto, quali elementi probatori a supporto dell’istanza di rimborso, copia del contratto sottoscritto come assegnista di ricerca con l’università e i titoli di viaggio relativi agli spostamenti da/per la città dove l’università ha sede. Va però rilevato che la posizione giuridica dell’assegnista di ricerca non è assimilabile a quella del dipendente pubblico, il quale soggiace all’obbligo di residenza come sopra descritto. L’equiparazione degli assegnisti ai titolari di contratto di lavoro subordinato è da escludere se solo si considera che “La causa dei due rapporti contrattuali, invero, è del tutto diversa, dal momento che nel rapporto di lavoro il lavoratore pone la propria forza di lavoro a disposizione del datore di lavoro verso il corrispettivo della retribuzione, mentre nel rapporto di collaborazione per assegno di ricerca, la causa a fondamento del contratto è l’accrescimento della professionalità mediante attività di formazione per il quale la legge prevede una misura di sostegno economico costituito dall’assegno. […] Mentre nel rapporto di lavoro di lavoro vigono gli elementi tipici della subordinazione quali l’assoggettamento al controllo dell’orario di lavoro, con obbligo di giustificare assenze e permessi o concordare i periodi di ferie, questi elementi non sono presenti nel rapporto di formazione per assegno di ricerca. L’assegnista non essendo assoggettato al potere organizzativo del datore di lavoro, non deve attestare la propria presenza nel luogo in cui effettua l’attività di ricerca o giustificare eventuali assenze. Le modalità di svolgimento del rapporto sono quindi del tutto diverse, poiché che, l’assegnista di ricerca non ha vincoli di orario né di subordinazione, configurandosi come rapporto di lavoro autonomo e di diritto privato con l’Università” (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 4975 del 15 luglio 2019).
Considerate le specificità del rapporto contrattuale intercorrente tra assegnista di ricerca e istituzione universitaria, appare opportuno chiedere ulteriore prova delle condizioni indicate dal consigliere comunale come fondanti la residenza effettiva nel comune dove l’università ha sede. Esse, in ogni caso, “non possono desumersi in via automatica, […], dallo svolgimento di attività lavorativa in altra città, dovendo essere altresì valutato l'insieme di elementi da cui è possibile evincere quale sia l'effettivo centro di riferimento degli interessi di una persona, tenuto conto che la stabile permanenza sussiste anche nell'ipotesi in cui la persona si rechi a lavorare o a svolgere altra attività fuori del comune di residenza, sempre che conservi in esso l'abitazione, vi ritorni quando possibile e vi mantenga il centro delle proprie relazioni familiari e sociali, richiedendo, invece, il trasferimento in altro comune che vi si costituisca una permanente abitazione, con l'intenzione di fissarvi il centro della propria vita familiare e sociale, distaccandosi in modo definitivo dal comune di origine” (T.a.r. Abruzzo, L'Aquila, sezione I, sentenza 25 maggio 2011, n. 289). Lo svolgimento dell’attività lavorativa in luogo diverso dal comune di residenza anagrafica, come visto sopra, assume valore preminente rispetto alla identificazione dell’elemento soggettivo della residenza di fatto, ma deve accompagnarsi all’elemento oggettivo rappresentato dalla stabile permanenza in quel luogo, di cui potrà essere fornita prova “con ogni mezzo” (Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 7730 del 2 novembre 2010).