INCOMPATIBILITA' EX ART. 67 QUATER D.L. 22 GIUGNO 2012 N. 83 CONVERTITO DALLA LEGGE 7 AGOSTO 2012,N.134

Territorio e autonomie locali
1 Luglio 2014
Categoria 
12.01.04 Incompatibilità
Sintesi/Massima 

L'IPOTIZZATA SITUAZIONE DI INCOMPATIBILITA' SUSSISTE OGNI QUAL VOLTA L'INTERESSATO SIA DIPENDENTE DI UNA SOCIETA' SOTTOPOSTA AD UN REGIME LEGALE DI CARATTERE PUBBLICISTICO OVVERO DI UNA SOCIETA' PARTECIPATA ASCRIVIBILE AL NOVERO DELLE SOCIETA' "IN HOUSE".

Testo 

Classifica 15900/TU/00/63 Roma, 1 luglio 2014

OGGETTO: Incompatibilità ex art. 67 quater del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134. Quesito.

Si fa riferimento alla nota sopra indicata, con la quale codesto Comune ha chiesto l'avviso di questo Ministero in ordine all'eventuale esistenza della causa d'incompatibilità di cui all'art. 67 quater, comma 11, del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, nei confronti del presidente ed amministratore di una società a partecipazione pubblica, che eserciti attività libero-professionali correlate alle opere ed ai lavori della ricostruzione post-sisma.
A parere di codesto Comune, nella fattispecie, non sarebbe ravvisabile l'incompatibilità in questione, poiché le c.d. società partecipate sarebbero qualificabili quali -enti di diritto privato in controllo pubblico- e, pertanto, i relativi amministratori non rientrerebbero tra i dipendenti di amministrazioni, enti ed uffici pubblici, ai quali fa riferimento il menzionato art. 67 quater, comma 11.
La questione prospettata è complessa e di non agevole decisione, non potendosi prescindere dall'esatto inquadramento delle società di che trattasi, sulla cui natura e sul cui regime giuridico, come noto, molto si è discusso e tuttora si discute tra gli operatori del diritto.
Inoltre, nel quesito non sono specificati né l'entità della partecipazione comunale né il tipo di attività svolta dall'impresa in questione, per cui le considerazioni che seguono, formulate con riferimento ai diversi modelli di società partecipata in astratto ipotizzabili, dovranno essere adattate alle specificità del caso concreto.
Ciò stante, non sembra dubbio che, nell'affrontare la problematica, si debba tenere conto, da un lato, della ratio della norma e, dall'altro, delle direttive ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza nella materia che qui interessa.
Sotto il primo profilo, in linea con le altre disposizioni che sanciscono analoghe ipotesi d'incompatibilità, la finalità dell'articolo in parola può essere ravvisata nell'esigenza di impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni degli organi di governo degli enti ivi indicati soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli degli enti medesimi o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità (cfr. Corte costituzionale, sentenza 20 febbraio 1997, n. 44; Id., sentenza 24 giugno 2003, n. 220).
È stato anche chiarito che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo, pur essendo di stretta interpretazione e, quindi, non suscettibili di applicazione analogica, nondimeno, nel rispetto del canone della ragionevolezza, possono essere intese in maniera estensiva, (ex multis, Corte costituzionale, sentenza 20 febbraio 1997, n. 44; Corte di Cassazione, Sezione I Civile, sentenza 22 dicembre 2011, n. 28504; Id., sentenza 11 marzo 2005, n. 5449).
Premessa, quindi, l'ammissibilità di un'interpretazione estensiva, ove necessaria per salvaguardare le finalità perseguite dalla norma, nella fattispecie, si tratta sostanzialmente di verificare se ed in quali termini le società partecipate da un'istituzione locale possano essere considerate entità assimilabili agli enti di stampo pubblicistico.
Sul punto, dopo talune oscillazioni applicative, la giurisprudenza ha finito per elaborare una serie di univoci criteri, ai quali fare ricorso, per stabilire se la veste privatistica di un'impresa abbia, in realtà, carattere meramente formale.
In tal senso, particolarmente pregnanti sono alcune recenti pronunce dei Giudici di legittimità, che, pur occupandosi della specifica questione concernente la possibilità di sottoporre al sindacato della Corte dei Conti gli atti posti in essere dagli amministratori e dipendenti delle società a partecipazione pubblica, forniscono indicazioni fondamentali, atteso il carattere generale dei principi che vi sono enunciati (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, ordinanza 25 novembre 2013, n. 26283; Id., 16 dicembre 2013, n. 27993).
In tali pronunce, si muove dall'assunto che le società di capitali eventualmente costituite o comunque partecipate da soggetti pubblici per il perseguimento delle finalità loro proprie non cessano, per questo soltanto, di essere delle società di diritto privato, la cui disciplina, se non diversamente disposto, risiede nelle norme dettate dal codice civile, tanto più alla luce dell'art. 4 della legge 20 marzo 1975, n. 70, a tenore del quale occorre l'intervento del legislatore per l'istituzione di un ente pubblico.
In via generale, può, dunque, convenirsi con quanto rappresentato da codesta amministrazione comunale, e cioè che le società a partecipazione pubblica sono enti di diritto privato, dotate di autonoma personalità giuridica e conseguentemente non assimilabili ad una pubblica amministrazione ai fini che qui interessano (in tal senso, cfr. anche Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, ordinanza 19 dicembre 2009, n. 26806; Id., sentenza 9 marzo 2012, n. 3692).
Nondimeno, a diverse conclusioni si deve pervenire, qualora si tratti di società di fonte legale, regolate da una disciplina sui generis di chiara impronta pubblicistica (quale, ad esempio, la R.A.I.: cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, ordinanza 22 dicembre 2009, n. 27092), nonché laddove ricorrano i connotati qualificanti del c.d. in house providing, figura di origine eminentemente giurisprudenziale, in seguito recepita in diverse disposizioni normative, tra le quali assume particolare risalto, in questa sede, il disposto dell'art. 113 del decreto legislativo n. 267 del 2000.
Nello specifico, tre sono le caratteristiche in presenza delle quali è legittimo parlare di società in house: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.
In conseguenza delle predette caratteristiche, la società in house non pare in grado di collocarsi alla stregua di un'entità posta al di fuori dell'ente o degli enti pubblici da cui promana, i quali ne dispongono come di una propria articolazione interna. In altri termini, la stessa non è altro che una longa manus dell'amministrazione e non può considerarsi terza rispetto al soggetto controllante (ex multis, oltre alle pronunce sopra citate, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 3 marzo 2008, n. 1; Corte costituzionale, sentenza 13 marzo 2013, n. 46).
In relazione alle considerazioni che precedono, si ritiene che l'ipotizzata situazione d'incompatibilità sussista ogni qual volta l'interessato sia dipendente di una società sottoposta ad un peculiare regime legale di carattere pubblicistico ovvero di una società partecipata ascrivibile al novero delle società in house, alla luce dei richiamati indici di elaborazione giurisprudenziale.