Svolgimento altra attività lavorativa - parte dipendente comunale - in assenza richiesta e comunicazione propria amministrazione, e senza prescritta autorizzazione - Norme e sanzioni applicabili.

Territorio e autonomie locali
23 Settembre 2008
Categoria 
15.09.04 Sanzioni disciplinari
Sintesi/Massima 

Costituzione o meno, quanto disposto art. 61, comma 1, L. n. 662/1996, giusta causa recesso per rapporti lavoro disciplinati da CCNL - Obbligatorietà o meno (nell’ipotesi di suddetta violazione) licenziamento dipendente, previa attivazione procedure disciplinari in materia- Sussistenza o meno (in capo Ente) margine discrezionalità per verifica gravità comportamento per applicazione diversa sanzione proporzionata al fatto.

Testo 

Con una nota, un'Amministrazione ha chiesto di conoscere l'esatta portata di quanto dispone l'art. 61, comma 1, della legge n. 662/996, laddove prevede che la violazione di quanto previsto in merito alla mancata richiesta e comunicazione alla propria amministrazione dello svolgimento di altra attività lavorativa senza la prescritta autorizzazione, costituiscono giusta causa di recesso per i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
In particolare viene chiesto se la predetta violazione comporti obbligatoriamente il licenziamento del dipendente, previa attivazione delle procedure disciplinari in materia, ovvero sussista in capo all'Ente un margine di discrezionalità volto a verificare la gravità del comportamento del dipendente onde pervenire ad una diversa sanzione proporzionata al fatto. (In proposito viene riferito che a seguito di accertamenti da parte del Nucleo Speciale della Funzione Pubblica e Privacy della Guardia di Finanza, è stato riscontrato nei confronti di un dipendente dell'amministrazione lo svolgimento di attività lavorativa senza la prescritta autorizzazione, in aperta violazione dell'art. 1, comma 61, della legge n. 662 del 23.12.1996).
Al riguardo, in primo luogo, si fa rilevare che l'art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 ha fatto salva per i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del D.P.R. 10.1.1957, n. 3. Com'è noto gli articoli in questione prevedono: i casi specifici di incompatibilità (art. 60), le attività extraistituzionali che possono, a certe condizioni, ritenersi compatibili (art. 61 e 62) ed i provvedimenti per i casi di incompatibilità (art. 63). Quest'ultimo articolo, in particolare, dispone che: l'impiegato che contravvenga ai divieti posti dagli artt. 60 e 62 viene diffidato dal Ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità (comma 1); la circostanza che l'impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l'eventuale azione disciplinare (comma 2); decorsi 15 gg. dalla diffida, senza che l'incompatibilità sia cessata, l'impiegato decade dall'impiego (comma 3); la decadenza è dichiarata con decreto del Ministro competente, sentito il Consiglio di amministrazione (comma 4).
Giova precisare che l'istituto della decadenza (secondo Cass. Civ. Sez. lavoro, 19.1.2006, n. 967) non ha natura sanzionatoria né disciplinare, né è la conseguenza di un inadempimento, bensì scaturisce dalla perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati 'ab origine', avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro.
Inoltre, appaiono significativi gli ulteriori chiarimenti dettati dalla citata sentenza sulla problematica, in particolare laddove argomenta che 'il regime giuridico del lavoro contrattuale resta profondamente differenziato da quello del lavoro in regime di diritto pubblico (d.lgs. n. 165/2001): per il secondo la decadenza è provvedimento amministrativo che, accertando il fatto che la determina, produce l'estinzione del rapporto; per il primo si resta nell'area dei comportamenti di gestione del rapporto di lavoro, e l'atto di diffida, trascorsi quindici giorni, determina la risoluzione automatica del rapporto (per un'altra ipotesi di estinzione automatica Cass. 4355/2005). Solo nel caso in cui il dipendente ottemperi alla diffida, facendo cessare la causa di incompatibilità, il comportamento assume rilievo disciplinare e rientra nelle previsioni del D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55.
Alla luce di quanto rappresentato, pertanto, il caso prospettato ricade in primo luogo nell'ambito della specifica normativa di cui agli artt. 60 e seguenti del DPR n. 3/1957 espressamente richiamata dall'art. 53 del d.lgs. 165/2001, che ha implicitamente abrogato la precedente disciplina di cui all'art. 1, commi 60 e 61 della legge n. 662/1996. (cfr sempre sent. Cass n. 967 del 2006), dando luogo alla decadenza se il dipendente diffidato non ottemperi all'interruzione dell'attività incompatibile.
Diversamente, qualora il dipendente abbia fatto cessare la causa di incompatibilità, l'Amministrazione dovrà dare applicazione alla normativa contrattuale di cui all'art. 24, comma 1, del c.c.n.l. del 5.7.1995, come sostituito dall'art. 24, comma 1, lett. a) del cc.n.l. del 22.1.2004) inerente la disciplina delle sanzioni e delle procedure disciplinari, la quale stabilisce che le violazioni degli obblighi del dipendente (di cui all'art. 23, c.c.n.l. del 6.7.1995 e s.m.i.), danno luogo, secondo la gravità dell'infrazione e previo procedimento disciplinare, all'applicazione delle relative sanzioni disciplinari.
In base dunque al predetto articolo vengono fissati due principi preordinati all'applicazione delle sanzioni disciplinari, prioritariamente è necessario l'avvio della procedura disciplinare (art. 24 c.c.n.l. del 6.7.1995), ed in secondo luogo è fondamentale che l'amministrazione valuti la gravità dell'infrazione che, secondo quanto prescrive l'art. 25 del c.c.n.l del 6.7.1995 e s.m.i., dovrà essere improntata al rispetto del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni in relazione alla gravità della mancanza.
Pertanto, è solo a seguito dell'applicazione al caso specifico dei criteri generali previsti dall'art. 25 suddetto (intenzionalità di comportamento, grado di negligenza, imprudenza, imperizia, rilevanza degli obblighi violati, responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente, grado del danno o pericolo causato all'ente, agli utenti o a terzi, disservizio, circostanze aggravanti o attenuanti riguardo al comportamento, ai precedenti disciplinari, al comportamento verso gli utenti, al concorso di più lavoratori), che l'amministrazione dovrà effettuare in modo circostanziato l'esame del caso, secondo le peculiari disposizioni contrattuali in merito alla procedura disciplinare e determinare autonomamente, in base all'esito delle proprie valutazioni, la sanzione che intenderà applicare.
A tale scopo, appare opportuno considerare che, per il configurarsi della giusta causa di recesso è necessario che l'inadempimento del dipendente sia talmente grave da non consentire la prosecuzione del vincolo fiduciario tra datore di lavoro e dipendente. In tali termini sembra anche orientarsi la giurisprudenza, in particolare, la Corte di Cassazione, con sent. n. 17058 del 12.11.2003, ha affermato che 'per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, le circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare, definitivamente espulsiva'.