Incompatibilità per lite pendente, di cui all’articolo 63, comma 1, n. 4, del D.Lgs. n. 267/2000

Territorio e autonomie locali
21 Marzo 2005
Categoria 
12.01.04 Incompatibilità
Sintesi/Massima 

Incompatibilità per lite pendente, di cui all’articolo 63, comma 1, n. 4, del D.Lgs. n. 267/2000

Testo 

E' stato richiesto un parere in merito all'eventuale sussistenza di una causa di incompatibilità per lite pendente, di cui all'articolo 63, comma 1, n. 4, del d.lgs. n. 267/2000, nei confronti di un consigliere comunale, chiamato in causa nel giudizio civile, promosso a titolo di risarcimento, da un istituto di credito nei confronti del comune.
La chiamata in giudizio di un terzo deve essere ricollegata, nel processo civile, al concetto di litisconsorzio, e cioè alla presenza in giudizio di una pluralità di parti. Tralasciando in questa sede il cosiddetto litisconsorzio iniziale (processo che inizia già con una pluralità di parti), bisogna considerare il litisconsorzio successivo (processo che si arricchisce di altre parti in corso di causa), nell'ambito del quale si collocano gli istituti del litisconsorzio necessario (art. 102 c. p. c.) e del litisconsorzio facoltativo, ad istanza di parte (art. 106 c. p. c.) o per ordine del giudice (art. 107 c. p. c.).
Comune a tali ipotesi risulta l'effetto dell'ampliamento del numero delle parti in causa, ben differenziati sono, invece, i presupposti.
Le ipotesi di litisconsorzio necessario discendono dalla norma di carattere generale di cui all'art. 102 c. p. c., secondo il quale 'se la decisione non può pronunciarsi che nei confronti di più parti queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo. Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito'. Oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, inoltre, si versa in ipotesi di litisconsorzio necessario tutte le volte che la sentenza debba essere pronunciata contemporaneamente nei confronti di più parti, risultando la sentenza, in difetto della chiamata in giudizio delle parti mancanti, inutiliter data anche per le stesse parti originariamente presenti nel processo. Ciò accade nel caso di 'rapporto sostanziale plurisoggettivo unico', la cui intima inscindibilità deve trovare riscontro in un rapporto processuale parimenti plurisoggettivo e inscindibile.
Pertanto, la chiamata in giudizio del litisconsorte necessario pretermesso non determina alcun effetto ampliativo dell'oggetto del giudizio, ma piuttosto attiene al concetto di reintegrazione processuale del contraddittorio, inizialmente instaurato in ambito soggettivo più circoscritto rispetto al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
L'effetto ampliativo dell'oggetto del giudizio si determina, invece, nelle ipotesi di litisconsorzio facoltativo, nelle quali alla pluralità di parti corrisponde una pluralità di cause, tra loro collegate da un rapporto di connessione per l'oggetto o per il titolo (connessione propria) o dalla necessità della risoluzione di identiche questioni aventi carattere pregiudiziale (connessione impropria); in particolare, le cause trattate mantengono una loro autonomia, risultando concentrate nell'ambito dello stesso processo per effetto della valutazione discrezionale ed incensurabile del giudice in ordine allo svolgimento del simultaneus processus; tuttavia, l'unitarietà del giudizio incide sulla formazione del convincimento del giudice in quanto i fatti risultano accertati in modo uniforme rispetto a tutti i litisconsorzi, ciascuno dei quali potrà giovarsi dell'altrui attività difensiva.
Con specifico riferimento, infine, alla chiamata in giudizio del terzo, il codice di procedura civile prevede le due distinte ipotesi di chiamata ad istanza di parte (art. 106 c. p. c.) o per ordine del giudice (art. 107 c. p. c.). L'art. 106 c.p.c., in particolare, prevede che 'ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita'; nel primo caso la parte afferma che la titolarità del rapporto giuridico per cui è causa, o di altro rapporto ad esso connesso oggettivamente o legato dal nesso di pregiudizialità, faccia capo al terzo; nel secondo caso il convenuto chiama in causa il proprio garante per averne aiuto nella difesa e, in caso di soccombenza, per esercitare l'azione di regresso.
La chiamata del terzo, oltre che dal convenuto, potrà essere richiesta anche dall'attore, se l'interesse sia sorto in conseguenza delle difese prodotte dal convenuto. Nella prima ipotesi essa si configura quale facoltà difensiva libera del convenuto, nella seconda ipotesi, invece, l'attore dovrà, a pena di decadenza, richiedere l'autorizzazione alla chiamata del terzo in occasione della prima udienza.
Alla luce di siffatte considerazioni, la fattispecie in esame, dalle notizie fornite, può essere inquadrata nell'ipotesi di cui al citato art. 106 c. p. c., in quanto il comune, convenuto in un giudizio risarcitorio da un istituto di credito, ha chiesto ed ottenuto, con autorizzazione del giudice, la chiamata in causa del terzo, sindaco all'epoca dei fatti per cui è causa ed attualmente consigliere comunale, configurandosi, così, un'ipotesi di litisconsorzio successivo, con arricchimento di parti in corso di causa, e facoltativo in quanto ad istanza di parte.
Ciò posto, il consigliere comunale in carica, sindaco all'epoca dei fatti controversi, a seguito della chiamata in causa da parte del comune-convenuto, è diventato 'parte' nel pendente giudizio civile e, pertanto, sarà configurabile nei suoi confronti la causa di incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, n. 4 del d.lgs. n. 267/2000, rammentando che ciò che rileva ai fini della sussistenza dell'incompatibilità de qua è il concetto tecnico di parte in senso processuale che non è riferibile, invece, in chiave sostanzialistica, alla diversa figura del soggetto genericamente interessato all'esito della lite per le ricadute patrimoniali che possano derivargliene.
Riguardo, poi, l'ulteriore questione prospettata, relativa al procedimento d'incompatibilità, si rappresenta che la stessa va sollevata nella sede naturale, quale è il consiglio comunale, mediante la stretta osservanza della procedura prevista dall'art. 69 del d.lgs. n. 267/2000, a tenore del quale, quando successivamente alla elezione si prospetta l'eventuale sussistenza di una causa di ineleggibilità o di incompatibilità in capo ad un amministratore, 'il consiglio di cui l'interessato fa parte gliela contesta'.
Le deliberazioni di cui al citato art. 69, comma 7, sono 'adottate di ufficio' allorquando la richiesta di convocazione del consiglio comunale, al fine di dare inizio la procedura di cui all'art. 69 citato, è stata presentata dagli organi a ciò preposti dalla legge e, cioè, dal sindaco o presidente del consiglio comunale ovvero, da un quinto dei consiglieri ai sensi degli artt. 43, comma 1 e 39, comma 2 del d.lgs. n. 267/2000, a differenza di quelle assunte invece 'su istanza di qualsiasi elettore'.
La predetta richiesta di convocazione impone al consiglio di procedere all'instaurazione della procedura di cui all'art. 69 del d.lgs. n. 267/2000 Tale obbligo si limita all'instaurazione della procedura (contestazione e successivi adempimenti) ed alla conclusione della stessa mediante adozione del provvedimento deliberativo, indipendentemente dall'esito e contenuto dello stesso, che dovrà essere l'espressione dell'autonoma e meditata volontà del collegio che potrà disporre tutti gli accertamenti necessari, oltre alle osservazioni ed argomentazioni che saranno prodotte dall'interessato.
Riguardo, poi, all'eventuale astensione dell'amministratore interessato dal prender parte alla relativa discussione e votazione nel corso delle sedute consiliari, va ribadito che la ratio dell'art. 69 più volte citato è quella di garantire il corretto contraddittorio tra organo ed amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto alla difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa di incompatibilità contestata e, pertanto, fino alla votazione l'amministratore interessato deve essere presente alla discussione, si asterrà, invece, dal prender parte alla votazione in ossequio all'obbligo di astensione degli amministratori locali, regola di carattere generale, che non ammette deroghe ed eccezioni e che ricorre ogniqualvolta sussiste una correlazione diretta tra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione (cfr. C.d.S., sez. IV 26 maggio 2003 n. 2826 e TAR Liguria, sez. I, 12 dicembre 2003).
Sarebbe, altresì auspicabile che la contestazione della causa di incompatibilità venga discussa al primo consiglio comunale utile dopo la conoscenza del fatto costitutivo dell'eventuale impedimento.
Riguardo, infine all'opportunità di tenere a porte chiuse le sedute consiliari nelle quali si procede alla contestazione di cause di ineleggibilità ed incompatibilità, l'art. 38, comma 7, del d.lgs. n. 267/2000 prevede che le sedute del consiglio comunale e delle commissioni consiliari sono pubbliche, salvo i casi previsti dal regolamento, considerato che in questo caso la ratio del principio della pubblicità va ricondotta alla finalità di consentire il controllo degli elettori sul funzionamento degli organi elettivi.
La fonte regolamentare, dunque, a giudizio del legislatore, costituisce la sola sede idonea a disciplinare le modalità ed i limiti di pubblicità delle sedute consiliari, al fine, in particolare, di prevenire l'indebita divulgazione di dati sensibili.
La suddetta fonte normativa, nel disciplinare i casi in cui il consiglio comunale potrà tenersi a porte chiuse, dovrà, in primis, uniformarsi ai principi di cui al D. Lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), considerato, in particolare, che ai sensi dell'art. 65, comma 5, del citato codice, 'non è comunque consentita la divulgazione dei dati sensibili e giudiziari che non risultano indispensabili per assicurare il rispetto del principio di pubblicità dell'attività istituzionale, fermo restando il divieto di diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute'.