Diritto di accesso al protocollo dell’ente - Responsabilità del diniego di accesso al registro di protocollo

Territorio e autonomie locali
7 Maggio 2003
Categoria 
05.02.06 Diritto di accesso
Sintesi/Massima 

Diritto di accesso al protocollo dell’ente - Responsabilità del diniego di accesso al registro di protocollo

Testo 

Sono stati chiesti chiarimenti in merito alla questione della consultabilità del registro di protocollo comunale da parte dei consiglieri comunali.
Si è chiesto in particolare di conoscere se, in base alla normativa vigente, sia possibile limitare l'accesso indiscriminato del registro del protocollo comunale anche ai consiglieri comunali, atteso che nel regolamento comunale in materia, tra le limitazioni del diritto di accesso, vi è la previsione della non applicabilità ai consiglieri del divieto di accesso al protocollo e che il Sindaco, anche alla luce delle nuove sentenze pubblicate, ha emesso una direttiva sui limiti per l'accesso a tale registro.
Si è chiesto, altresì, di conoscere se, in attesa delle modifiche da apportare al regolamento comunale, sia attribuibile o meno la responsabilità del diniego di accesso al registro di protocollo al responsabile del servizio o ad altro organo comunale.
Com'è noto l'art. 43 comma 2 del D.lgs. 267/2000 riconosce ai consiglieri comunali il diritto di ottenere tutte le informazioni, in possesso dell'ente locale, utili all'espletamento del proprio mandato, senza indicare una specifica motivazione.
La Commissione per l'accesso ai documenti ha peraltro precisato che 'la posizione sostanziale fatta valere dal consigliere nell'esercizio del diritto di che trattasi non è configurabile come un diritto generalizzato ed indiscriminato ad ottenere qualsiasi tipo di atto dell'Ente. Tale diritto è espressamente individuato, infatti, dalla stessa norma in diretto ed esclusivo riferimento alle notizie e alle informazioni utili all'espletamento del proprio mandato' (in tal senso anche il Consiglio di Stato, Sez. V, 8 settembre 1994, n. 976).
Con provvedimento del 20 maggio 1998 il Garante per la protezione dei dati personali, pronunciandosi in ordine al diritto di accesso dei consiglieri degli enti locali agli atti e ai documenti in possesso dell'amministrazione comunale e provinciale, ha affermato che la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del mandato consiliare, ossia alla cura d'interessi pubblici, costituisce il presupposto legittimante nonché il limite al diritto pretensivo del consigliere.
Conseguentemente, l'ampia prerogativa del consigliere comunale di ottenere tutte le informazioni, utili all'espletamento del proprio mandato istituzionale, riconosciuta dall'art. 43 comma 2 del D.lgs. n. 267/2000, non sembra tale da consentire la visione generalizzata del registro di protocollo dell'ente. In tal senso si è espresso il T.A.R. Veneto, Sez. I 30.3.1995, n. 498 ritenendo di doversi escludere in capo ai consiglieri un indiscriminato diritto di accesso al registro del protocollo, ben potendo lo stesso riportare materie coperte da segreto e notizie riservate.
La giurisprudenza citata ha ritenuto che, al fine della consultazione del protocollo generale, il consigliere comunale debba indicare con precisione gli oggetti di proprio interesse.
Successivamente il Consiglio di Stato, con la sentenza sez. V n. 5109 del 26 settembre 2000 ha chiarito che: 1) il diritto di accesso del consigliere comunale non riguarda le competenze amministrative dell'organo collegiale, ma essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus di cui egli è investito in tutte le sue potenziali implicazioni al fine di una compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (in tal senso anche la sentenza del Consiglio di Stato Sez. V 21 febbraio 1994 n. 199); 2) il consigliere comunale che esercita il diritto di accesso non è tenuto a specificare i motivi della richiesta, né gli organi burocratici dell'ente hanno titolo per richiederli, perché in caso contrario questi ultimi sarebbero arbitri di stabilire l'estensione del controllo sul loro operato (Consiglio di Stato sentenza Sez. V - 7 maggio 1996 n. 528).
Il Consiglio di Stato, con una successiva sentenza resa dalla V sezione n. 6293 del 13 novembre 2002 ha ribadito l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato (sentenza resa dal Consiglio di Stato Sez. V n. 5109 del 26 settembre 2000) secondo il quale il consigliere comunale 'non è tenuto a specificare i motivi della richiesta, né gli organi burocratici dell'ente hanno titolo a richiederlo'.
Dalla lettura di tale pronuncia si ricava che i consiglieri comunali, pur non avendo l'obbligo di motivare le richieste di accesso agli atti, non devono formulare richieste generiche ed indiscriminate' o 'meramente emulative' in quanto riferite ad atti chiaramente e palesemente inutili ai fini dell'espletamento del mandato e 'idonee a determinare intralcio e/o disservizi agli uffici nonché costi elevati e ingiustificati per l'ente'.
Pertanto secondo la recente giurisprudenza al consigliere comunale spetta un'ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii rispetto alla quale non sono opponibili profili di riservatezza, a condizione che i documenti e le informazioni richieste siano pertinenti all'esercizio del mandato istituzionale, fermi restando gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali secondo la vigente normativa sulla privacy (sentenza resa dal Consiglio di Stato Sez. V decisione 6 Giugno – 26 Settembre 2000, n. 5109). Nello stesso senso si era espresso l'Alto Consesso nella sentenza della Sez. V del 22 febbraio 2000, n. 940.
Un'ultima considerazione va fatta in ordine alla portata dell'espressione normativa: 'essi (i consiglieri comunali) sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge' contenuta nell'art. 43 comma 2 del T.U. 18 Agosto 2000 n. 267.
In merito il Consiglio di Stato (Sez. V, 2 Aprile 2001 n. 1893) ha affermato che: 'la norma, per la sua collocazione sistematica e per il suo significato letterale, intende ribadire la regola secondo cui, lecitamente acquisite le informazioni e le notizie utili all'espletamento del mandato, il consigliere, di regola, è autorizzato a divulgarle'. 'Un divieto di comunicazione a terzi deve derivare da apposita disposizione normativa'.
In tale prospettiva si dispiega, coerentemente, il rapporto tra la disciplina sulla protezione dei dati personali e la pretesa all'accesso del consigliere comunale.
Questi è legittimato ad acquisire le notizie ed i documenti concernenti dati personali, anche sensibili poiché, di norma, tale attività costituisce 'il trattamento' autorizzato da specifica disposizione legislativa (legge n. 675/1996; decreto legislativo n. 135/1999) secondo le regole integrative fissate dalle determinazioni ed autorizzazioni generali del Garante e dagli atti organizzativi delle singole amministrazioni. Ma il consigliere comunale non può comunicare a terzi i dati personali (in particolare quelli sensibili) se non ricorrono le condizioni indicate dalla normativa in materia di tutela della riservatezza.
Tutto ciò premesso, venendo agli specifici quesiti posti dall'ente, si rileva come, in termini generali ed astratti, la direttiva del sindaco appaia in linea con gli orientamenti giurisprudenziali affermatisi in materia. Tuttavia, occorre anche evidenziare come, nel rispetto dei principi che regolano la gerarchia delle fonti del diritto, risulti indispensabile che l'Amministrazione proceda ad un adeguamento della norma regolamentare.
Nelle more una direttiva del sindaco può porsi validamente come strumento di definizione delle modalità applicative della disposizione regolamentare in coerenza con la disciplina di livello superiore (legislativo) della materia. In questo ambito essa esplica una efficacia vincolante per il personale dipendente.
In ordine al secondo quesito si fa notare che rientra nella competenza del responsabile del servizio e non dell'organo politico il compito di decidere sulle singole richieste di rilascio di copia dei documenti presentate dai consiglieri comunali, quale atto di natura gestionale, in applicazione dell'art. 107 comma 3 del T.U.E.L. n. 267/2000 e del principio di separazione dei compiti di indirizzo e di controllo dai compiti gestionali.
Al riguardo si ritiene utile fare un breve excursus sulla normativa statale di riferimento.
In via preliminare si osserva che, con gli artt. 51 della legge 142/1990 e 3 del d.lg.vo n. 29/1993, si è affermato detto principio di separazione: da una parte i compiti di indirizzo sono attribuiti agli organi elettivi, dall'altra i poteri gestionali divengono poteri propri della burocrazia.
In passato si è ritenuto che tali norme per essere applicabili negli enti locali avessero bisogno di ulteriori specificazioni normative di secondo livello (statuti e regolamenti). Per la necessità di una intermediazione statutaria si era, del resto, pronunciata la giurisprudenza amministrativa: il T.A.R. della Toscana con sentenza del 1 gennaio 1995, n. 17 aveva, infatti, affermato che le norme sulla dirigenza non trovavano immediata applicazione nel settore degli enti locali.
Per rendere immediatamente operativo il nuovo assetto delle competenze, il legislatore è nuovamente intervenuto con l'articolo 6 della legge n. 127/1997 che ha sostituito il secondo periodo del comma 3 dell'art. 51, prevedendo che sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dall'organo politico.
In tale chiave esegetica non può non rammentarsi che l'articolo 45 comma 1 del d.lg.vo n. 80/1998 ha espressamente disposto che a decorrere dall'entrata in vigore del decreto 'le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all'art. 3 comma 2 del d.lg.vo n. 29/1993 si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti'.
Successivamente questa Direzione Centrale per le Autonomie, con propria circolare del 10 ottobre 1998, n. 4, ha definitivamente chiarito che il nuovo assetto dei poteri all'interno degli enti locali, dopo l'entrata in vigore della L. 127/1997 è improntato a una rigida separazione: da una parte i compiti di indirizzo attribuiti, al potere politico, dall'altra i poteri gestionali che divengono poteri propri della burocrazia (dei dirigenti e/o responsabili dei servizi) con la conseguenza che ogni atto gestionale assunto dall'organo esecutivo è illegittimo.
Nella stessa circolare si è aggiunto che la norma di cui all'art. 45, comma 1 del d.lg.vo n. 80/1998 ha la portata e l'efficacia di una clausola interpretativa generale che rende immediatamente operativa ed effettiva l'attribuzione dei poteri ai dirigenti.
L'art. 107 del d.lg.vo n. 267/2000 ha poi confermato, ed addirittura rafforzato, il principio secondo cui i poteri di indirizzo e di controllo politico - amministrativo spettano agli organi di Governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti.
Per l'esercizio delle attribuzioni dirigenziali non è necessario, naturalmente, che disposizioni dello statuto o del regolamento diano attuazione all'articolo 107 del d.lg.vo n. 267/2000.
La potestà regolamentare e statutaria attribuita agli enti locali può operare – com'è noto – solo negli ambiti lasciati liberi dalla legge e cioè solo disciplinare le finalità e i modi di esercizio dei poteri dirigenziali senza incidere sulla titolarità dei medesimi derivanti da fonte normativa di grado superiore e coperti da specifica riserva di legge (vedasi circolare ministeriale n. 4/1998 sopra richiamata).
A tale impostazione ha aderito anche la recente giurisprudenza amministrativa con la quale si è affermato che la competenza dei dirigenti-responsabili dei servizi è da intendersi di immediata applicazione senza bisogno di ulteriori specificazioni statutarie o regolamentari (vedasi T.A.R. Veneto, Sez. II sentenza 16.11.1998, n. 2072).
Rientra perciò nella competenza del responsabile del servizio protocollo decidere sulle singole istanze di accesso al protocollo presentate dai consiglieri comunali.