Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, l’art. 143, primo comma, d.lgs. n. 267/2000, nel menzionare “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare” o su altre “forme di condizionamento”, si riferisce a circostanze che presentano un grado di significatività e di concludenza inferiore rispetto a quello che potrebbe giustificare l’avvio dell’azione penale o l’adozione di misure di sicurezza nei confronti di indiziati di appartenere ad associazione di tipo mafioso o di analoga natura. Ciò significa che l’adozione dei provvedimenti di cui ai commi primo e quinto del citato art. 143 può giustificarsi anche quando a soggetti appartenenti alla Pubblica Amministrazione non sia imputabile alcun tipo di responsabilità per il reato di cui all’art. 416 c.p., ovvero per il reato di favoreggiamento di cui all’art. 378 c.p..
La previsione di cui all’art. 143, primo comma, attribuisce ampia potestà di apprezzamento all’Amministrazione nel valutare gli elementi sui “collegamenti diretti o indiretti” o sulle “forme di condizionamento”, potendo assumere rilievo “situazioni non traducibili in episodici addebiti personali, ma tali da rendere nel loro insieme plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una” qualche forma di “soggezione… alla criminalità organizzata”.
Gli “elementi” indiziari di cui all’art. 143, quinto comma, non solo possono non attingere la soglia della fattispecie penalmente rilevante, ma possono anche consistere in circostanze inidonee a determinare la definitiva affermazione di una responsabilità disciplinare del dipendente (sia per insussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito, sia per insussistenza dell’elemento oggettivo, sia per la sussistenza di cause di non punibilità). In altri termini, il quadro indiziario che giustifica l’adozione delle misure di cui al citato quinto comma, se da un lato deve essere tale da giustificare la formulazione di un addebito disciplinare, non consiste necessariamente in elementi a tal punto univoci ed incontrovertibili da rendere certa ed inevitabile l’affermazione definitiva di una responsabilità disciplinare del dipendente. Nelle ipotesi di cui al citato quinto comma il comportamento del dipendente, in buona sostanza, può anche consistere in semplici incertezze ed esitazioni attribuibili ad un suo qualsiasi collegamento - pur indiretto - od a una qualsiasi forma di condizionamento da parte della criminalità organizzata. Può darsi il caso, cioè, che il dipendente non abbia operato con la più opportuna solerzia ed incisività anche in ragione di un semplice condizionamento ambientale posto in essere dalla criminalità organizzata (in altri termini, per semplici ragioni di soggezione psicologica, ovvero per paura di eventuali, sebbene non esplicitamente minacciate, ritorsioni). Ogniqualvolta emergano significativi elementi indiziari che depongano in tal senso, l’Amministrazione statale può adottare le misure atipiche di cui al citato art. 143, quinto comma, ferma restando la possibile irrilevanza penale dei fatti posti a fondamento dei provvedimenti adottati ed impregiudicato il necessario approfondimento degli stessi nel naturale ambito disciplinare.
Le misure atipiche di cui al citato art. 143, quinto comma, come ad esempio la sospensione dall’impiego del dipendente o la sua destinazione ad altro ufficio, non presentano carattere necessariamente definitivo. Nessuna norma impedisce, invero, all’ente locale, all’esito dei dovuti approfondimenti nel giudizio disciplinare, di riammettere in servizio il dipendente o di destinarlo nuovamente all’ufficio a cui era stato originariamente assegnato, qualora ciò non costituisca pregiudizio per il regolare svolgimento dell’attività amministrativa del Comune o della Provincia. Il citato art. 143, quinto comma, non esclude, invero, l’ipotesi che la sospensione dal servizio e la destinazione ad altro ufficio sia comminata dall’Amministrazione statale “ad tempus” e, quindi, in via sostanzialmente cautelativa ed al precipuo, seppur non esclusivo, fine di assicurare l’immagine di assoluta trasparenza e regolarità che l’ente è tenuto a fornire verso l’esterno. In questo caso il rapporto fra l’adozione delle misure di cui al citato art. 143, quinto comma, e le determinazioni definitive assunte dell’ente all’esito dell’istruttoria disciplinare appare analogo a quello che intercorre fra l’adozione di eventuali misure cautelari nell’ambito del procedimento penale e la decisione definitiva emanata all’esito del processo. La misura cautelare può risultare legittima (in quanto fondata sulla sussistenza dei gravi indizi di reità cui all’art. 273 c.p.p. e delle esigenze cautelari di cui al successivo art. 274 c.p.p.), sebbene il giudizio penale possa successivamente concludersi con il proscioglimento o la piena assoluzione dell’imputato ai sensi dell’art. 425 o dell’art. 530 c.p.p., in quanto il quadro probatorio posto a fondamento della misura cautelare può essere successivamente corretto e ribaltato tramite l’assunzione di ulteriori e decisive prove nel corso del giudizio.
TAR Sicilia, sezione staccata di Catania (sez. seconda), sentenza n. 707 del 3 marzo 2014
Territorio e autonomie locali
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15 Controllo sugli Organi
Principi enucleati dalla pronuncia